Il cane di Sant'Uberto in Italia. Il bloodhound "dual purpose", cioè bello e bravo

Cosa accomuna un segugio delle Ardenne dell'VII secolo d.C. a un gigante delle esposizione canine nell'Inghilterra del Novecento? Qual è la radice che lega il pacioccone di tanti cartoons - da Pluto di Disney a Trusty di "Liily e il vagabondo" - all'implacabile bloodhound che nel West dava la caccia agli indiani ribelli? Una volta avevano due nomi e due destini distinti. Il belga "chien de St. Hubert", cacciatore di cervidi e ungulati dominato da un olfatto 3 milioni di volte superiore a quello dell'uomo, e il britannico bloodhound delle mostre cinofile, bello a vedersi, ma talmente esasperato nell'ipertipicità da avere più di un tallone d'Achille.
E proprio in Italia dove questo segugio straniero, ma così felicemente trapiantato nello Stivale, conoscerà uno dei più interessanti tentativi di gettare un ponte fra queste due sponde: bellezza e lavoro, bloodhound e chien de St. Hubert. Forse perché né all'una né all'altra di queste due versioni di razza
o tipi - in Italia ci si sentiva tradizionalmente legati. C'era semplicemente da risolvere un problema pratico: non perdere un briciolo del fascino seducente del principe del ring e recuperare la vocazione per la caccia, il "richiamo della foresta" che poi come altra faccia della medaglia significava più salute e longevità. Il tutto nel rispetto dello standard. Non sorprenda se la sintesi è riuscita nella terra che ha partorito l'estetica di Michelangelo e il realismo di Machiavelli.

      L'allevamento Vecchio Toscano
      Arcese e la scelta per la caccia
      Le attività del Club
      Il bloodhound a lavoro anche in Italia
      L'identikit del Sant'Uberto nel 2002

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